Il dramma globale di questa pandemia sta mettendo in discussione le fondamenta dell’interazione sociale su cui si sono fissati, nella letteratura moderna, i principi scientifici socio comunicativi e, in particolare, la “prossemica” e la “faccia”.

Proclami sul “si tratta di una semplice influenza”, sul bisogno di considerare “l’immunità di gregge” e dei numeri della conta, fino alla delirante e recidiva rassicurazione che “le mascherine non servono a chi non è infetto”: una spettacolarizzazione della comunicazione incosciente e strafottente che, di lì a poco, avrebbe determinato una ecatombe.

L’Italia, con tutti i suoi difetti, ha però assunto delle iniziative, di certo criticabili sul piano giuridico, di tempestività, di esaustività o di ciò che si voglia tra mille e mille polemiche.

Sta di fatto che la popolazione, TUTTA, ha aderito senza disquisire sul fatto che un atto di alta amministrazione potesse, o meno, collidere con le fonti primarie della nostra amata e martoriata Carta, e TUTTI abbiamo aderito all’esigenza uti cives di salvaguardare il futuro dell’umanità.

La cosa che rattrista e induce allo smarrimento è, però, la palpabile considerazione che la classe politica seduta agli scranni del nostro (non del loro) Parlamento non ha alcun rispetto verso l’elettorato attivo che, suo malgrado, la ha fatta accomodare su quelle preziose poltrone, assistendo sistematicamente a una vomitevole accozzaglia di insultatori di turno, scarica barile, e “segni verbali” di bassa lega.

Il distinguo è che, nella scenografia bulimica della politica, la faccia (questa volta senza la mascherina)  palesata dagli attori non è mai quella della “solidiarietà”, bensì quella del “potere”, fatta di isterismi, dilettantismi e mancanze, deliranti, di soluzioni di continuità.

Dall’altra parte dello schermo – perché la modalità prossemica ci ha portato adesso, toto mundo, non più e non solo alle dinamiche di interazione virtuale attraverso gli smartphone, ma allo zapping televisivo nella speranza di una parola di conforto – NOI siamo rimasti inermi a cercare il barlume di una buona notizia, di una prospettiva, di un “messaggio”, di un “segno” che ci indicasse la via per uscire da questa assurda situazione, per poi assistere, ancora, allo spettacolo nell’arena degli stolti.

Che a Napoli – senza voler fare torto al Nord come al Sud – vi sia un “paniere” nei vicoli dei quartieri con scritto “chi non ha, prenda, chi ha, metta”, non dovrebbe essere una eccezione, ma la regola della nostra comunità civile, se così pretendiamo di continuare a definirla.

Eppure, il “segno” più importante che abbiamo visto e che forse mai metabolizzeremo, è quella fila interminabile di camion verde cachi con dentro i nostri Cari, senza un volto e senza un nome, in partenza per chissà dove e senza il futuro della memoria.

Così come quelle fosse comuni nella capitale della modernità, una grande mela ormai marcia dentro e fuori; una megalopoli non troppo distante da noi, non troppo diversa da quella degli altri nostri fratelli di Huan.

E, allora, accanto a questa mesta e silenziosa cerimonia del “distacco” non può trovare riscontro quella statistica nuda e cruda, snocciolata a suon di numeri (e mai di nomi, salvo che si tratti di “scienziati” di contorno) alla sera, nella conferenza di routine a reti unificate.

E, allo stesso qual modo, non si riesce a comprendere la logica di quel commiato di Stato,  uti singuli, nel rispetto di quella stessa morte che non può – e non deve – trovare in sé, proprio malgrado, anche quella metafora della “livella” di Antonio De Curtis.

È inqualificabile e intollerabile trovarsi, per caso, a leggere trafiletti riportati in sordina a fondo pagina di emendamenti che, quando si sono riaperte finalmente le porte del nostro (non del loro) Senato, plaudono a una norma emendatrice per le catene gerarchiche che non hanno dotato i loro “figli” al fronte di dispositivi individuali di protezione;

Non è etico, non è serio, e non è accettabile, nel rispetto di tutte quelle donne e quegli uomini che hanno ripetuto a memoria, ancora una volta mentre erano intubati nella loro agonia senza affetti e senza una sepoltura, quel dovere di Ippocrate che li aveva portati a scegliere l’altro, piuttosto che se stessi;

Non è morale ed è disumano, nel rispetto di tutte quelle donne e uomini che hanno prestato fedeltà alle Istituzioni scolpite in quella Carta e che, a mani nude, continuano a difendere, tenendo fermi i puntelli di quella “casa di tutti” che Giorgio La Pira stenterebbe oggi a riconoscere.

Non è una guerra quella che stiamo combattendo. E non lo è per svariati motivi: in guerra non si arriva al cibo, noi invece facciamo la fila al supermercato, ma l’approvvigionamento non manca e in quelle situazioni dove mancano le risorse economiche, arrivano le opere di carità. 

In guerra conosco il nemico e posso concludere il conflitto stilando un trattato di pace, un patto di non belligeranza, sulla base delle reciproche volontà. Qui il nemico non lo conosciamo e non possiamo dialogarci. 

Stiamo chiusi in casa sì, ma in guerra (quanto meno in quelle forme di guerra che l’umanità ha sempre combattuto) la casa viene spesso rasa al suolo dalle bombe. 

In guerra si ha paura, noi invece siamo dominati dall’angoscia, poiché abbiamo perso tutti i riferimenti ordinari e consueti del vivere, come i bambini che stanno al buio della stanza.

In un colpo solo, questa minuscola catena di RNA, ci ha fatto ritornare ad una dimensione di necessità, propria delle cose della natura. Siamo chiamati dunque a rimanere immobili per conservare la specie, confinati per la pura sopravvivenza biologica. 

Natura vs tecnica, l’eterno conflitto, dove il primo termine è immensamente più forte del secondo e lo stiamo comprendendo bene.

Una “società liquida” che di liquido ha ben poco. L’uomo nasce estremamente liquido, libero poiché non codificato da istinti.

Dunque, non siamo liberi e non siamo “liquidi”. L’umanità non ha mai percorso binari così determinati e schemi di vita così rigidi.

L’incertezza sull’ informazione e la velocità con  cui mutano e si relativizzano certi parametri sociali, non sono altro che un effetto voluto del sistema rigidissimo sopra evidenziato. 

Una sorta di “disordine” su spinta nichilista, dove tutti i vecchi principi e parametri sembrano saltati, ma non se ne formano di nuovi. 

Dobbiamo prendere spunto dal forzato lockdown, dalla frenata ai ritmi brutali di vita, che creavano sviluppo ma non progresso.

Non siamo in guerra, ma siamo in uno stato di emergenza e una dichiarazione formale di questo tipo avrebbe dovuto imporre, senza dubbio, allo Stato di apprestare tutti i mezzi necessari per affrontare questa emergenza, pur in presenza di un invasore sconosciuto. 

Procedere con il passo del viandante è utile solo se si ha una strategia precisa di intervento e si aggiusta il tiro man mano che la situazione di evolve, secondo le sue incognite. 

In questo hanno fallito anche i più bravi della classe. Nello stato di emergenza è anche importante abbassare il grado di polemica. Fare opposizione politica, quando il Paese sta affrontando una situazione assolutamente eccezionale, è a dir poco scellerato e squallido. 

Occorre dare risposte certe e univoche, fare fronte comune per offrire soluzioni. Ma, parliamo di un’altra Italia e, a quanto pare, di un altro Mondo.

Quando avremo ricominciato a vivere, dovremo trovare il modo di organizzare la vita secondo etica e democrazia e, perché no, porre come termini dell’etica la felicità e la bellezza. 

E forse non abbiamo altra scelta, diversamente stiamo solo preparando la nostra rovina.

Il nostro futuro, ci domandiamo adesso, quale sarà: già ci eravamo fatti un’idea rileggendo le proiezioni di Marshall Mc Luhan allorquando, nel 1964, scrivendo “Understanding media”, avrebbe ipotizzato che i medianon sarebbero stati solo un messaggio e che, di lì a poco, avrebbero assunto la funzione di “massaggio”, una sorta di “extensions of man” nel caos del “villaggio globale”.

Starà a NOI decidere; starà a NOI consentire che la nostra amata ITALIA sia descritta, nel silenzio assordante della politica, come uno spaghetto a forma di cappio.

Il bello della nostra amata Costituzione è questo: la libertà di espressione, la possibilità di poter dissentire e palesare la propria critica, anche attraverso un foglio di carta, che potrà farci vedere “il cielo stellato” sopra di noi e la “legge morale” dentro di noi.

Voglio essere fiducioso ed affrontare il futuro con resilienza!!

GG

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