dott. Piernicola Carer dottore commercialista e Revisore legale

Treviso, luglio 2019

L’imprenditore individuale defunto, se insolvente, può essere dichiarato fallito – ad ampia garanzia dei suoi creditori – entro un anno dalla morte, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente al decesso, o entro l’anno successivo ex art. 11 del RD 267/42 (c.d. fallimento post mortem). La perdurante soggezione al fallimento anche di colui che non è più in vita risponde alla necessità di preservare la tutela dei creditori, così come la perentorietà del termine annuale dall’evento morte – che implica la cessazione della qualità di imprenditore –, ai fini della dichiarazione di fallimento, è stabilita per esigenze di certezza, vincolando l’insolvenza alle obbligazioni contratte dall’imprenditore defunto.

In taluni casi, tuttavia, l’imprenditore defunto può essere dichiarato fallito prima o dopo il decorso del termine annuale dall’evento morte. Se la morte è intervenuta, ad esempio, dopo la cessazione dell’attività d’impresa il dies a quo per la decorrenza del termine annuale decorre da quest’ultimo evento. Viceversa, il fallimento può essere dichiarato dopo il decorso del termine annuale, ad esempio, nell’ipotesi in cui sia stato accolto il reclamo avverso il provvedimento che respinge l’istanza di fallimento, con conseguente rimessione degli atti al Tribunale: in tal caso, il termine annuale si computa con riferimento al decreto della Corte d’Appello (art. 22 comma 5 del RD 267/42).

La peculiarità della disciplina relativa al fallimento dell’imprenditore defunto, sebbene non trovi una compiuta disciplina nel RD 267/42, deriva, principalmente, dalle sue interferenze con il fenomeno successorio e con le problematiche sottese alla presenza degli eredi.

Il fallimento dell’imprenditore deceduto, in primo luogo, non si estende di per sé all’erede – salvo che lo stesso non abbia proseguito l’impresa del defunto (condotta “concludente”, che equivarrebbe a un’accettazione tacita dell’eredità) – come si desume dal comma 2 dell’art. 11 del RD 267/42 che legittima l’erede ad attivarsi per la dichiarazione di fallimento del de cuius, al fine di liquidare giudizialmente il patrimonio dell’imprenditore insolvente (anche a beneficio dei creditori dello stesso), purché l’eredità non sia già confusa con il suo patrimonio (effetto che si produrrebbe con l’accettazione c.d. “pura e semplice” dell’eredità). In tal caso, l’erede (a riprova della separazione dall’imprenditore de cuius) non è soggetto agli obblighi di deposito della documentazione (scritture contabili e fiscali obbligatorie, ecc.) di cui agli artt. 14 e 16, comma 2, n. 3 del RD 267/42.

Il fallimento post mortem dell’imprenditore, in secondo luogo, comporta l’acquisizione del patrimonio, da questi relitto, all’attivo fallimentare, nonché la separazione – con formazione di due masse patrimoniali distinte – del patrimonio stesso da quello degli eredi (effetto che consegue anche all’accettazione con beneficio d’inventario), al fine di permettere ai creditori dell’imprenditore defunto, ammessi al fallimento, di soddisfarsi in via preferenziale rispetto ai legatari e ai creditori degli eredi (Cass. n. 12846/1998).

Tale separazione imposta dal fallimento, che non trova espressa previsione normativa, viene generalmente desunta in via interpretativa dall’art. 11 comma 3 del RD 267/42. La norma, in particolare, prevede che con la dichiarazione di fallimento cessino di diritto gli effetti della separazione exart. 512 c.c. dei beni ottenuta dai creditori del defunto, che viene assorbita dalla separazione patrimoniale conseguente al fallimento.


Questa separazione, inoltre, determina un effetto preferenziale a favore dei creditori del de cuius (rispetto a quelli dell’erede), i quali potranno soddisfarsi sia sul patrimonio del defunto (mediante insinuazione al passivo), sia su quello dell’erede (con autonoma azione esecutiva).

I creditori dell’erede, invece, potranno soddisfare le proprie pretese solo nei confronti del patrimonio (separato) del loro debitore (salvo che, dall’esito della liquidazione fallimentare, vi sia un attivo residuo in favore dell’erede).

Concorso dei creditori del de cuius fallito nel fallimento dell’erede.

Il sistema si complica, però, stante la mancanza di dati normativi sicuri, laddove anche l’erede venga dichiarato fallito. In tali casi, secondo alcuni, i creditori de cuius potrebbero aggredire il patrimonio dell’erede (insinuandosi al passivo nel fallimento di questo), solo in via sussidiaria. Si tratterebbe, in altri termini, di crediti condizionali che, ai sensi dell’art. 53 comma 3 del RD 267/42 non possono farsi valere contro il fallito (erede), se non previa escussione di un obbligato principale (il de cuius fallito). Altri, invece, ipotizzano la possibilità per i creditori di insinuarsi contestualmente nei due fallimenti e per l’intero credito, secondo il meccanismo di cui all’art. 61 del RD 267/42, previsto per il concorso del creditore nei fallimenti di più coobbligati.

Le interferenze tra fallimento e fenomeno successorio, al pari del RD 267/42, non trovano compiuta disciplina neanche nel DLgs. 14/2019 (CCII), che, agli artt. 3436, salvo limitate novità, ha sostanzialmente riproposto le norme di cui agli artt. 11 e 12 del RD 267/42.

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